Neuropausa

•novembre 23, 2015 • 2 commenti

Signori, dopo attenta considerazione (o supposta tale) a distanza di otto anni e 189 post dal lancio del blog Neuro@ntropologia, sentiamo l´esigenza di fermarci un attimo. Questo blog ha voluto, in tutti questi anni, proporre temi a cavallo tra neuroscience e antropologia, con una prospettiva multidisciplinare e una chiara apertura al dibattito. Abbiamo raccontato di menti estese, di fossili, di neuroanatomie, di crani, di archeologia cognitiva, di epistemologia, di scimmie e di Neandertaliani. Siamo riusciti a intrattenervi e a intrattenerci con dati e con speculazioni, con stimoli e con provocazioni. Tutto questo rimane, per il momento, nelle pagine di questo blog, nei suoi testi e nei suoi commenti, disponibile ancora e sempre tra le braccia senza tempo della Rete. Nel frattempo, noi due autori ci prendiamo appunto una pausa, con alcune note di chiusura personali. A seguire.”

Emiliano Bruner:

Questo blog ha rappresentato senza dubbio un inizio. In questi otto anni grazie allo stimolo di questa iniziativa ho poi scritto e coordinato dieci blog differenti, mischiando neuroscienza, antropologia, zoologia, museologia, evoluzione, fotografia, società, musica, e un pò di tango. L’obiettivo di tutto questo scrivere è stato dare un esempio alternativo alla superficialità delle reti sociali, alla divulgazione economica da baraccone, alla scienza spiccia dell’intrattenimento da salotto, agli scialbori delle cricche accademiche e dei loro compagni di merende, e perchè no anche alla brutta grafica che appesta la rete per mancanza di criterio, di capacità tecnica, e di soprattutto di impegno. A volte mi sa che ci sono pure riuscito. Tutto questo in un contesto, quello dell’informazione in internet, che soffre dei soliti mali di sempre: dietro ad una impercettibile percentuale di persone che attivamente contribuiscono allo strumento e alle sue applicazioni, miliardi di usuari senza prospettiva nè criterio abusano di una tecnologia e di una cultura che non capiscono e che non hanno la minima intenzione di capire, generando un mercato florido e lobotomizzante che orienta inevitabilmente gli sviluppi dello strumento stesso in direzioni illogiche e totalmente distrofiche. Come nella epopea della Fondazione di Asimov, gli invisibili sono sempre lí a dare qualche colpetto per cercare di raddrizzare il cammino, ma più di tanto non si può fare, e non sarebbe manco giusto farlo: tra i diritti del genere umano vi è probabilmente anche quello alla stupidità e all’insuccesso. Otto anni di blogging, a parte aver rappresentato una ottima palestra dialettica e divulgativa, nel mio caso hanno costantemente testimoniato l’evolversi di una storia individuale, che ha condotto ad un messaggio crudo ma necessario: la vita è un cammino solitario. La scienza, la musica, il lavoro, le relazioni sociali, fa tutto parte di un percorso relativamente breve che uno alla fine fa da solo. Può sembrare un messaggio allo stesso tempo scontato e troppo duro, ma non credo convenga vivere una esistenza nella speranza di scoprire che le cose siano meglio di quel che sembrano e che da sempre sono. Come statistico, non credo nel concetto di speranza, e la vedo come la vedeva Monicelli, come lo strumento che usano più meno coscientemente per poterti fregare ogni giorno e il giorno dopo. Ma anche se volessi perdermi nell’attesa, nel mentre cercherei di non rimanere senza far nulla. Quando ti accorgi che in autostrada vai nella direzione opposta, non importa se ti stai sbagliando tu o si stanno sbagliando tutti gli altri: sia come sia, meglio accostare e scendere dall’auto. Qualcuno si intigna e alla fine si schianta. Qualcuno gira la macchina e, a sguardo basso e depressione incipiente, cambia direzione. Io ho deciso di abbandonare le grandi strade e mettermi per un sentiero laterale, poco battuto, senza fretta, godendo del paesaggio, e ricordando che quel che conta non è la meta, ma il cammino. In questo cammino si incontra poca gente, ma di solito è gente interessante. Internet, il sistema nervoso di Gaia, rende questi cammini indipendenti dal tempo e dallo spazio. Ti incontri con persone che vivono da altre parti, o addirittura che hanno vissuto in altri tempi. Senza che nessuno debba decidere per gli altri, senza coercizioni o forzature, la selezione è interna, e soprattutto spontanea. Chi sale su un carro e chi no. Ognuno può decidere, e ognuno ha il diritto di rinunciare.

Otto anni fa uno studente poco ortodosso e decisamente polemico, Duilio Garofoli, mi propose di metterci a scrivere in internet. Ci siamo fatti insieme otto anni di cammino divulgativo, accademico, e personale. Non so se ci sarei caduto comunque nella rete della divulgazione online, ma di fatto è stato lui che mi ha dato la mano per salire a bordo, e quella mano ha fatto la differenza. Nel mio blog Paleoneurology continuerò a pubblicare novità puntuali sul fronte della neuroanatomia evolutiva.  Probabilmente continueró a scrivere di tanto in tanto di musica e di società, a coordinare qualche blog di gruppo o istutuzionali, e a promuovere risorse online. Ma sul fronte della divulgazione scientifica per il momento mi concentreró su due progetti principali, due occasioni importanti per iniziare una seconda fase, dopo quelle iniziata otto anni fa. Qualche mese fa ho iniziato il blog Antropológica Mente su “Investigación y Ciencia”, la versione in spagnolo di Scientific American (in Italia, Le Scienze). E questo mese inizio una collaborazione con Jot Down, la principale rivista culturale digitale spagnola, coordinata con la piattaforma blog del periodico “El País”. Opportunità di portare il carro lungo sentieri interessanti, e responsabilità di farlo nel migliore dei modi. Stiamo a vedere.

Emiliano Bruner

Centro Nacional de Investigación sobre la Evolución Humana

Paseo Sierra de Atapuerca 3, 09002 Burgos (España)

web: http://paleoneurology.wordpress.com/

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Duilio Garofoli:

L´idea alla base di questo blog, per quanto mi riguarda, consisteva nell´invitare persone preparate, indipendentemente da titoli o posizioni accademiche varie, o semplicemente curiose, a confrontarsi con noi nei vari ambiti multidisciplinari che abbiamo toccato. Occasionalmente, questo esperimento é riuscito, e siamo riusciti a costruire, con un numero limitato di lettori, alcuni interessanti scambi che hanno aiutato a sviluppare mutualmente (o almeno spero) la nostra conoscenza. Ahimé, non si puó negare che questi scambi siano stati molto limitati nel tempo. Forse si potrebbe dire che gli argomenti trattati siano stati troppo settoriali per attirare l´attenzione del grande pubblico. Tuttavia, sembra difficile pensare che tra scienze cognitive, antropologia, archeologia, filosofia, etc., non siamo riusciti ad attirare nemmeno l´attenzione (o meglio la partecipazione) di una nicchia di persone a cui il blog era rivolto. L´aspetto piú amaro di una esperienza che tutto sommato ritengo positiva, sta nella frase che molti colleghi mi hanno rivolto, quando invitati a confrontarsi con noi nel blog: “Preferisco limitarmi a leggere quello che scrivete, senza replicare, perché ho paura di dire sciocchezze che poi rimangono lí, in evidenza”. Ora, mi viene da pensare, é possibile che i “datori di lavoro” siano una massa di mefistofelici individui, atti a scandagliare la rete h24 a caccia delle dichiarazioni fallaci scritte su un blog, piuttosto che valutare il reale valore reale di un candidato? Certo é che ormai uno deve essere pronto a tutto, ma posto che la blogosfera garantisce un parziale anonimato grazie ai nickname, proteggendo cosí anche i piú pavidi individui da eventuali svarioni, lo spauracchio della figura grama come scusa per la non-partecipazione lascia il tempo che trova. Personalmente sono convinto che non ci sia grande interesse, almeno nel nostro Paese, riguardo allo sviluppo di argomenti elevati mediante blog o social media. Non credo la responsabilitá sia da attribuirsi all´essenza stessa di questi nuovi media. In ambito politico, infatti, non mancano gli impavidi. La rete sembra infatti ricolma di commenti, analisi, argomenti filosofici (spesso da bar, sfortunamente) e dati (spesso decontestualizzati, purtroppo), che vengono pubblicati senza paura in lungo ed in largo. In questo caso, tuttavia, é la logica del “noi contro loro” a spingere le persone a ricercare sempre nuovi argomenti da brandire come clave contro i loro oppositori verbali, trasformando i social media in un ring, piuttosto che renderli un´occasione per capire meglio come stanno le cose. Anche in questo caso, tuttavia, il livello di analisi non é quasi mai alimentato da un desiderio di conoscenza fine a se stesso, ma si ferma spesso laddove é sufficiente per vincere lo scontro dialettico. Tolta questa base emotiva, eliminato il pomo della discordia, l´interesse per le dinamiche profonde della realtá svanisce e resta una generale assenza di visione machiana. Quindi, non mi ritroverete a scrivere su alcun blog, piattaforma o sito aperto al pubblico, ma resteró disponibile per comunicazioni private tramite la mia pagina personale (link a breve). Anche io lascio dunque la via maestra, ma passo alla montagna, e medito alla maniera dell´eremita, tenendo una finestra aperta sul mondo. Non sia mai che, una volta riaperti gli occhi ed interrotta la meditazione, io mi venga a trovare in compagnia di altri eremiti, incluso un professore tatuato di nome Emiliano Bruner.

Duilio Garofoli

Cognitive Archaeology Unit

 Institute of Natural Science in Archaeology

Eberhard Karls University of Tübingen

 

Maladattamenti

•settembre 18, 2015 • Lascia un commento

upAttenzione, post OT (ma non troppo). Durante il mese di Agosto si é scatenata una polemica intorno ad una serie di articoli pubblicati dal vicedirettore del Fatto Quotidiano Stefano Feltri, sul tema istruzione universitaria e occupazione caro anche a questo blog. Nei suoi articoli, Feltri commenta i dati relativi all´occupazione sulla base della tipologia di laurea conseguita e conclude che ad oggi alcuni tipi di laurea offrono competenze/conoscenze che non hanno riscontro effettivo sul mercato e che una tendenza degli italiani a sbagliare corso di laurea ha dunque costi individuali e sociali notevoli. Naturalmente, i commenti di Feltri hanno scatenato un putiferio sui social network, portando ad una radicalizzazione dello scontro tra “curve” di sostenitori su argomenti noti da decenni e mai risolti. Si é dunque nuovamente assistito all´annoso dibattito tra sostenitori delle humanities, fanalino di coda nel rapporto occupazione/facoltá e supporters delle scienze, e a quello, piú generale, tra logica mercatista (si studia ció che il mercato vuole) e logica idealista (si studia ció che uno vuole, a prescindere dalla realtá economica del paese). Ora, esistono probabilmente decine di modi per far dire ai dati ció che si vuole, facendo debunking selettivi (qui un buon debunking) ed interpretazioni ad hoc. Personalmente, credo i dati mostrino che non esista alcuna opposizione tra humanities e scienza, ma che la grande divisione sia tra materie che offrono uno sbocco professionale chiaro e consolidato sul mercato e quelle che non lo fanno. Cioé, lo studente di giurisprudenza (humanities) fa l´avvocato, il notaio, ecc… Lo studente di medicina (scienza) fa il medico. Il filosofo (umanesimo) o il biologo (scienza), al contrario, non hanno campi definiti di applicazione, a parte il ricercatore, e quindi hanno problemi. Senza soffermarci a commentare ulteriormente dati e statistiche, trovo piú interessante chiedersi se la “scelta giusta” della facoltá rispetto a ció che chiede il mercato possa rappresentare, da sola, un modo per ridurre i grandi costi individuali e sociali di cui parla Feltri. Cioé, se domani tutti azzeccassero la facoltá giusta, avremmo un impatto positivo sulla crescita economica? Riusciremmo a far crescere l´occupazione? Personalmente dubito che l´idea di alterare una variabile isolata in un sistema, come quello economico/sociale del nostro Paese, rappresenti la pallottola d´argento che uccide il mostro della crisi. Probabilmente, se tutti scegliessero la facoltá giusta, avremmo un mercato del lavoro molto simile a prima, rimpiazzando i disoccupati in filosofia e biologia con nuovi disoccupati in giurisprudenza e medicina, tagliati comunque fuori dall´incremento dell´offerta di lavoro a fronte di una domanda costante in questi campi. Resta cioé il punto che se il mercato del lavoro non cambia forma, offrendo nuove opportunitá, fare la facoltá giusta significa solo adattarsi ad una situazione contingente, adattarsi a breve termine senza pensare al domani. Non si puó pensare che consigliare ai giovani di studiare ció che é utile al mercato attuale possa risultare in un miglioramento. Se il mercato attuale, risultato della combinazione tra fenomeni esterni e scelte politiche, sta portando il nostro Paese in un terrificante inviluppo, adattarsi ad esso implica semplicemente allinearsi con la spirale discendente. Forse, dovremmo chiederci come sia possibile che nel nostro mercato del lavoro non ci sia spazio per studi umanistici e scienza di base, mentre nei Paesi economicamente piú in salute ci sia. Per fare un esempio che mi riguarda, negli USA gli antropologi cognitivi sono richiesti come “concept designers” in aziende che mirano alla produzione di nuove interfacce di interazione tra utente e prodotto commerciale. In Italia, tutto questo ovviamente non esiste, a fronte di una domanda crescente di ragionieri, fiscalisti, addetti alle vendite, ecc… che si limitano a distribuire ció che viene sviluppato altrove. Invece che ragionare su come adattarci al mercato, sarebbe il caso di capire come cambiarlo, affinché la divisione tra ció che é utile e ció che piace venga effettivamente superata.

D Garofoli

Neurofibra

•agosto 10, 2015 • Lascia un commento

Neural speed 2015 (EB)Anche i neurocentristi più incalliti ormai riconoscono che i processi cognitivi sono per lo meno il risultato di una interazione tra funzioni e parcelle neurali distinte e distribuite in tutto il sistema cerebrale. Ci sono “nodi cruciali” che fanno da coordinatori o da collo di bottiglia per specifiche funzioni (linguaggio, attenzione, calcolo …), ma la rete è comunque dispersa, e l’esistenza di questi nodi non la dice poi tutta sulla complessità del processo. Una volta riconosciuta l’importanza di questi flussi e di questi scambi tra le aree cerebrali, la connettività è diventata un fattore ancora più importante, e negli ultimi dieci anni abbiamo visto moltiplicarsi esponenzialmente gli studi orientati a svelare gli schemi di connessione neurale. Tutto questo aiutato dalle tecniche di imaging che permettono di rivelare strade e autostrade del cervello, come la trattografia, che segue il cammino assonale delle molecole di acqua, mostrando la disposizione delle connessioni della rete. In una recente e dettagliata revisione del sistema fronto-parietale, Roberto Caminiti e i suoi coautori fanno notare che però questi dati trattografici sono fotografie istantanee, e si perdono una parte importante della storia: il fattore tempo, e le velocità del cablaggio. Riconoscere le connessioni è essenziale, ma il processo poi non si basa solo sullo schema di relazioni. La velocità di conduzione è fondamentale per stabilire una “gerarchia funzionale” delle connessioni, che stabilisce chi influisce su chi, le sequenze, e le polarità del processo. La cosa interessante è che la velocità di conduzione dipende da molti fattori strettamente fisici, come la lunghezza o il diametro della connessione. Il che introduce anche un certo paradosso: i diametri neuronali non sono cambiati poi tanto a livello evolutivo e il genere umano, avendo ampliato il suo volume cerebrale, ha aumentato le distanze tra le aree, il che comporta una importante perdita di velocità media di comunicazione rispetto agli altri primati. Ci sono trucchi per evitare di perdere velocità aumentando la distanza della connessione? Quanto influiscono questi parametri sul processo cognitivo? E’ solo una questione di arrivare prima, o ci sono velocità minime necessarie per poter sviluppare certi processi?

Da sempre abbiamo sospettato che la velocità della comunicazione neurale fosse importante, non è una novità. Però a livello cognitivo non abbiamo indagato troppo sulle sue cause strutturali, presentando solo ipotesi generali, senza trovare modelli quantitativi o sperimentali che ne possano valutare il peso effettivo. La psicometria ci dice che, in questo tipo di capacità come in tutte le altre, le persone possono essere davvero sorprendentemente differenti. E la velocità è un fattore fondamentale, non tanto perché manda la macchina più veloce, ma soprattutto perché a lungo raggio la manda più lontano. Tutto questo però viene in genere presentato come un fattore genericamente graduale: più e meno, su una scala continua. Ma non sarebbe una novità scoprire che ci sono effetti soglia che non sono lineari, per i quali superato un certo valore succedono cose strane, generando discontinuità nelle potenzialità e nei processi. Con tutti i vantaggi e gli svantaggi dell’ebrezza: chi vola alto, cade lontano.

E Bruner

Una vista machiana

•agosto 3, 2015 • 1 commento

MrCari lettori, interrompo finalmente il mio silenzio, mentre riemergo da una valanga di lavoro che mi ha recentemente sommerso. Il mese di luglio è stato terribile: non solo ho difeso la mia tesi di dottorato, ma qualche giorno dopo, invece di sorseggiare mojitos su una imprecisata spiaggia del globo, come normalitá imporrebbe, ho pensato bene di recarmi ad una conferenza internazionale, dove ho parlato di embodiment radicale. Colgo ora l´occasione per alcune note finali (e riassuntive) riguardanti il concetto di multidisciplinarietá, considerando il fatto che il mio dottorato in archeologia cognitiva si è basato su una combinazione di teoria archeologica, filosofia delle scienze cognitive, fenomenologia e paleoantropologia.
1) La multidisciplinarietá è persona di facili costumi: in pubblico si “associa” con tutti, in privato nessuno la conosce. In questi anni mi è capitato innumerevoli volte di trovarmi in situazioni accademiche nelle quali ricercatori di ogni campo e disciplina hanno mostrato interesse verso gli argomenti multidisciplinari da me introdotti, generando discussioni spesso costruttive. Quando tuttavia uno chiede di alzare il livello e propone di trasformare questo interesse “da corridoio” in qualcosa di serio (e.g., collaborazioni, lavori comuni, potenziali applicazioni per futuri progetti), ecco che l´interesse di colpo sparisce ed il conservatorismo accademico mostra il suo lato piú profondo. Alla fine, gli approcci multidisciplinari si rivelano sempre “altro” rispetto a quello che si fa in un certo dipartimento, che ha costruito la sua nicchia accademica in anni di lavoro e non ha ragione di perturbarla aggiungendo nuove variabili non chiaramente controllabili. Lo slogan piú diffuso in questi anni è stato:

“Interessante, ma noi non facciamo quello che vuoi fare tu, qui si fa altro. Devi cercare qualcuno che ha flessibilitá e mente aperta per poter accogliere questo tipo di ricerca”.

Ció suona molto simile agli slogan medio-politici, della serie “Il lavoro prima”, frasi che affermano cioé l´evidente senza spiegare come realizzare il tutto. Senza contare il fatto che, ad oggi, per inserire nel sistema una novitá é necessario che ci sia qualcuno che giá controlli la novitá stessa. E se c´é giá qualcuno che controlla qualcosa di nuovo, non ha senso parlare di novitá; un interessante caso di logica circolare.

2) Nel frattempo, poiché la parola “multidisciplinare” é modaiola ed attira interesse, le comunitá scientifiche attuali tendono ad appropriarsene come e quando possono, producendo ció che abbiamo definito a suo tempo monodisciplinarietá superba. Per rinfrescarvi la memoria, trattasi di un approccio multidisciplinare che viene sviluppato da esperti monodisciplinari appositamente per un´utenza monodisciplinare. Ció genera tutta una serie di argomenti spurii, se non di intere discipline “canaglia”, che contribuiscono ad aumentare la giá notevole confusione spesso presente anche nei campi fondativi. Tutto questo supportato dai numerosi editori che sposano ad oggi la linea: “noi siamo un giornale multidisciplinare, ma il tuo paper è troppo multidisciplinare. Noi siamo meno multidisciplinari e quindi non possiamo accettare il tuo lavoro”.

3) C´è da dire che le relazioni tra le cosiddette discipline umanistiche e quelle scientifiche sono veramente ai minimi storici ed una soluzione a questo problema mi sembra ad oggi lontanissima. Gli scienziati, spesso per superificialitá e arroganza, rifiutano di capire (o sottovalutano) qualunque approccio non sia strettamente empirico. D´altro canto, gli umanisti spesso falliscono nel rendere il loro punto di analisi chiaro (o a volte lo rendono incomprensibile ai non esperti al solo scopo di vantarsi). Tendono cioé a far scomparire la domanda che loro stessi pongono ed il metodo di analisi in una serie di proposizioni verbose che alla fine danno l´idea di una complessa forma di narrativa, piuttosto che di una analisi logica volta a risolvere un problema. Sta di fatto che in molte presentazioni umanistiche non si capisce nemmeno quale sia il punto in ballo e in un contesto multidisciplinare questo indispettisce non poco l´audience scientifica. In ambito editoriale si hanno inoltre casi in cui giornali scientifici arrivano a proporre discussioni teoriche che peró, nei campi umanistici paralleli, sono state giá affrontate decenni fa (e che non vengono citate). Assistiamo cosí a cicli di re-invenzione della ruota, come mostrato ad esempio dal dibattito sul metodo in archeologia cognitiva, che sta ora riemergendo in archeologia sperimentale, senza tuttavia riferimento alcuno a quanto giá detto in archeologia teorica.

D Garofoli

 

Visuospaziale

•giugno 9, 2015 • Lascia un commento

René Descartes, Meditations metaphysiques, 1641Insieme a Atsushi Iriki, del Riken Brain Institute, abbiamo pubblicato questo mese una review su mente estesa e integrazione visuospaziale. Dopo una introduzione generale su estensione cognitiva ed embodiment, parliamo degli schemi sensoriali e motori, dell’integrazione tra corpo e oggetto, del corpo come struttura conoscitiva in base alle tensioni strutturali (tensegrità), e dell’importanza della prassi e della manualità nella cultura umana. Poi entriamo nel dettaglio del sistema occhio-mano, e delle funzioni di integrazione visuospaziale delle aree corticali parietali, soprattutto considerando il solco intraparietale e il precuneo. Recuperiamo il concetto di rappresentazione, cestinato come retaggio cartesiano dualista e “disembodied“, presentandolo invece come un legittimo componente dell’integrazione tra cervello, corpo, e ambiente. Riassumiamo le evidenze paleoneurologiche sull’evoluzione delle aree parietali, e il caso dei Neandertaliani, che mancano dello sviluppo parietale associato alla nostra specie e allo stesso tempo hanno una dipendenza manipolativa associata ai denti (la terza mano) molto più decisiva che in qualsiasi popolazione di Homo sapiens. Consideriamo i meccanismi coinvolti in questi cambi sensoriali e motori nei primati, integrando ecologia, sistema nervoso, e comportamento, discutendo poi alcuni limiti analitici, associati  ai problemi nella valutazione sperimentale di questi processi. Alla fine ci allacciamo all’archeologia cognitiva, e al contesto sociale. Non a caso, nei primati le dimensioni cerebrali sono proporzionali alle dimensioni del gruppo, che mostra a sua volta una correlazione con i livelli di endorfine associati al grado di contatto fisico. Le aree parietali sono sensibili a blocchi genetici, ad influenze ambientali, a regolazioni genetiche sulla loro sensibilità, e a componenti epigenetiche. Se i lobi parietali hanno quindi influenzato la capacità di embodiment e di engagement, il primo problema sarà quindi misurarlo, il secondo valutare i meccanismi dietro al cambio. Tutto questo poi bisognerà considerarlo in un ottica di efficienza cognitiva: ha un vantaggio chi riesce a connettersi di più e meglio, o chi non ha bisogno di farlo? Mentre, proprio questa settimana, continua il dibattito sulle capacità visuospaziali dei Neandertaliani, con un secondo forum del Journal of Anthropological Sciences su una possibile mancanza di specializzazione coordinata tra le loro capacità di integrazione somatica e la loro complessità culturale.

E Bruner

Materia e Antimateria

•aprile 22, 2015 • 2 commenti

Acheulean AntimatterCaratterizziamo le società umane e la loro storia a seconda delle risorse che definiscono i loro processi energetici, l’informazione, l’elettricità, il petrolio, il vapore. Prima c’era il bronzo, il ferro, e prima ancora la pietra. La risorsa si basa su due fattori principali: la sua disponibilità, e la capacità di saperla utilizzare. In archeologia preistorica si da per scontato che la scelta della materia prima sia solo funzione del panorama geologico (locale o associato alle capacità di spostamento di una popolazione) e delle capacità di analisi processuale dell’ominide di turno. Attraverso un classico processo di prove ed errori, gli individui selezionano i materiali, in funzione della loro efficienza. In alcuni casi (soprattutto palesemente nella nostra species) si possono aggiungere fattori sociali e fattori estetici, che orientano nella decisione di utilizzare una materia prima piuttosto che un’altra. Ma il primo vero passo per poter utilizzare una risorsa è quello di saperla riconoscere, e questo è un qualcosa strettamente associato alla percezione (decodifica e filtro sensoriale) e alla capacità di prospettiva (pianificazione e simulazione). Molti insetti impollinatori vanno solamente su alcuni fiori, perché il loro sistema visivo percepisce solo quel colore o quella forma. Gli altri fiori, che potrebbero contenere risorse simili, nemmeno li vedono. Anche facendo la spesa in un supermercato, tra banconi di prodotto tutti uguali, siamo attratti principalmente da quelli che, in base a decisioni di mercato basate sulla risposta sensoriale, ci chiamano l’attenzione a causa di una determinata associazione cromatica o geometrica. Senza contare che per sperimentare, provare, valutare, bisogna comunque avere già una idea di quello che si vuole cercare, e questo dipende da livelli cognitivi che vanno ben oltre le capacità esecutive. Il filtro sensoriale ci fa vedere alcune cose e ignorare altre, quello analitico ci permette di cercare in base a delle relazioni, ma ci preclude la pianificazione basata sulle relazioni che non siamo in grado di riconoscere. Allora forse, al di là delle proprietà dei materiali, della loro disponibilità, sarebbe interessante pensare a quali caratteristiche orientano un ominide che sta cercando del materiale adatto a uno scopo. Sappiamo che le funzioni esecutive non funzionano sempre per scelta di una opzione, ma piuttosto per eliminazione delle altre apparentemente disponibili. Ovvero, spesso non si sceglie una possibilità, ma piuttosto si scartano le altre. Questo richiede filtri che dipendono dall’esperienza ma anche dalla percezione: se sei un martello, tutto il mondo ti sembra un chiodo. Le scoperte si fanno anche per caso, ma sempre e comunque dentro dei limiti della nostre capacità percettive e analitiche. E’ difficile trovare quello che uno non sta cercando, e impossibile cercare quello che nemmeno si può vedere.

E Bruner & I De Dominicis

Estrema Mente

•marzo 20, 2015 • 7 commenti

Instagram_2015Le teorie sulla mente estesa interpretano il processo cognitivo come una proprietà emergente che nasce dall’interazione tra cervello, corpo, e ambiente. Il corpo è l’interfaccia attiva tra mondo interno e mondo esterno. Gli oggetti (la cultura materiale) sono le estensioni della nostra rete neurale, che immagazzinano informazioni, innescano processi, e alterano le sensazioni che passano da fuori a dentro e viceversa. Il confine tra questo sistema complesso e una interpretazione più lineare e tradizionale del processo cognitivo  è sottile, e i concetti sono per il momento ancora in balia delle sfumature. Il problema non è solo teorico e terminologico, e la cosa veramente difficile sarà portare tutto questo dentro i laboratori, iniziando una dovuta fase sperimentale. Anche se riconosciamo la validità di questo processo basato su una totale integrazione tra sistema nervoso, corpo, e ambiente, resta una questione fondamentale: una maggiore capacità di estensione della mente vuol dire una maggior capacità cognitiva? Bisogna chiedersi, di fatto, se una maggior capacità analitica (“intelligenza”) voglia dire essere più capaci di relazionarsi col contesto, o al contrario voglia dire aver meno bisogno di farlo. Di primo acchitto, verrebbe da pensare che una maggiore capacità di “embodiment” possa permettere lo sfruttamento di una nuova e ampia gamma di possibilità. Ma l’avvocato del diavolo potrebbe dire che in realtà il vero vantaggio sarebbe non averne bisogno, non dover dipendere da fattori aggiunti. Su queste due possibilità contrarie, c’è poi da metterci dentro il dibattito su quanto un potenziamento esterno aiuta a estendere la mente, o al contrario quanto a viziarla. C’è chi dice che la nostra complessa tecnologia potenzia le nostre capacità cognitive (indipendentemente se questo sia bene o male, che è un altro discorso ancora) e chi dice che le obnubila, scaricando il cervello dalle sue responsabilità e dalla sua ginnastica quotidiana. Un esempio interessante, per gli amanti delle capacità grafiche e visive, è Instagram: basta quasi puntare il cellulare a caso, scattare una foto, applicare uno qualsiasi dei suoi filtri “cool”, e sei subito artista. Uno strumento automatico come questo stimola o deprime la creatività? L’artista è ancora “artigiano” della sua opera? Ovviamente ogni caso è indipendente, siamo tutti molto diversi l’uno dall’altro, e qualsiasi strumento si può utilizzare bene o male, per migliorare cultura e informazione o per degradarle. Ma qui il punto è più generale, non solo volendo cercare tendenze ed effetti medi, ma soprattutto chiedendosi se la struttura della mente umana sia organizzata in modo da ottenere un beneficio o una limitazione da questa incessante estensione tecnologica. In realtà sembra che, almeno secondo qualche dato preliminare, tutto questo internet non stia cambiando poi troppo le capacità delle nuove generazioni. Stupisce il dato, e fa pensare a quell’assenza di evidenza che non è evidenza dell’assenza. Dobbiamo riconoscere che il dibattito è vecchio come il cucco. A noi ci dicevano che saremmo finiti stupidi a forza di usare usare le calcolatrici. E nel Fedro di Platone Socrate si pronuncia, sinceramente spietato, contro … la scrittura:

Questa invenzione produrrà oblio nelle menti di coloro che apprenderanno a usarla, perché non praticheranno la loro memoria. Crederanno nella scrittura, prodotta con caratteri esterni che non sono parti di loro stessi, e questo scoraggerà l’uso della loro propria memoria interna

E Bruner

Dente per dente

•febbraio 20, 2015 • Lascia un commento

Brit Neanderthal (Kennis and Kennis)Questa settimana è stato pubblicato un nuovo articolo sulle strie dei denti dei Neandertaliani, le stesse che noi stiamo usando per cercare di capire se un uso estremo della bocca per la manipolazione di oggetti possa essere evidenza di una scarsa capacità di integrazione visuospaziale, e di limiti nell’integrazione cognitiva tra corpo e artefatto. Lo studio descrive differenze nelle tracce nei denti in funzione di sesso e età, inferendo che siano conseguenza di una ripartizione del lavoro. Ovvero, i Neandertaliani usavano la bocca per manipolare e lavorare gli oggetti, e se queste impronte sono differenti tra maschio e femmina e tra giovani e adulti vuol dire che queste popolazioni si ripartivano il lavoro in base alla struttura sociale e demografica. L’associazione tra le strie e specifiche attività manipolative è estremamente interessante. Bisogna dire che, evidentemente, è un lavoro che richiede cautele interpretative. Primo, bisogna supporre che strie differenti per lunghezza o per spessore siano il risultato di processi manipolativi differenti. Secondo, bisogna fare una supposizione sul sesso dei reperti, decidendo chi è maschio e chi è femmina. Terzo, bisognerebbe valutare il tutto in un contesto statistico che, con i pochi esemplari disponibili, in questo caso non può essere considerato. Ovvero, assumendo che queste tracce possano rivelare differenti tipi di operazioni, assumendo che il sesso di questi individui si possa conoscere, e assumendo che questi pochi individui ben rappresentino una intera specie continentale, allora posso pensare che c’era divisione del lavoro. L’idea è ottima ma il contesto analitico, speculativo e preliminare,  forse non era adeguato all’importanza della rivista in cui è stato pubblicato lo studio. E qui lo sappiamo, c’è una catena democratica di revisori e editori che decide chi pubblica dove come e quando. In paleontologia umana, è noto, il poter “raccontare una storia” è molto più importante del contesto scientifico o del paradigma analitico.

Poi sono arrivati i mezzi di comunicazione, che hanno contribuito a fare di questo caso un buon esempio di come funzionano le cose. Anche se siamo nell’era dell’informazione indipendente da tempo e spazio, il giornalismo continua a fondarsi integralmente sul principio del “qui e adesso”. L’articolo è stato pubblicato da un ricercatore di Madrid, e questo è stato sufficiente a giustificare l’eco decisamente sorprendente di tutti i mezzi di comunicazione nazionali spagnoli. Ovvero in questo caso il giornalismo, totalmente dissociato dai contenuti scientifici, si è nutrito di due fattori: la “storia” del quotidiano neandertaliano, e la firma di un ricercatore della Capitale. Spesso la regola del “qui e adesso” che ottunde e impregna il giornalismo scientifico si basa su un tradizionale principio di “vantaggio reciproco” (lo stesso termine applicato a situazioni molto più importanti si chiama “corruzione”): promuovo quelle istituzioni e quelle persone che possono darmi in cambio una relazione di vantaggio. Da qui, si pesca nel quartiere. Altre volte, solamente è un vizio dei limiti psicologici umani: l’interesse è proporzionale alla vicinanza della notizia, e al nome dell’istituzione. In entrambi i casi, andiamo male. Ovviamente questa non è una tendenza spagnola, e in Italia la situazione è la stessa: basta che cambi di città per essere coinvolto in un giro di riviste e di periodici totalmente differente, come se per un contatto via email o per telefono fosse rilevante la distanza geografica.

Il giornalismo scientifico insiste nel suo ruolo di intrattenimento e diversivo, e la paleontologia umana continua ad affermarsi come racconto da prima serata. C’è anche da aggiungere che l’eclatante conclusione finale di questo studio, ovvero la ripartizione del lavoro da parte dei gruppi Neandertaliani, non sembra qualcosa di troppo sconvolgente. Credo che tra le differenti specie del genere umano ci siano state differenze sostanziali, ma allo stesso tempo suppongo che tutte queste forme abbiano avuto capacità generalmente confrontabili. Non vedo quindi nella possibilità di dividersi il lavoro, di sotterrare un cadavere, di lasciare una marca su un muro, o di mangiarsi il vicino, qualcosa di strabiliante e inatteso, tra specie che saranno pure differenti ma che alla fine appartengono allo stesso genere zoologico, che non per niente chiamiamo “umano”. Tutti i cacciatori-raccoglitori hanno una divisione del lavoro, non vedo perché i Neandertaliani dovrebbero essere l’eccezione. Non sono sicuro che comunque si possa verificare questa ipotesi misurando la lunghezza delle strie dentali di alcuni individui. L’idea è interessante, e il lavoro è ben strutturato, ma questiono sinceramente l’attenzione mediatica. Di tutto questo io mi tengo  la proposta di misurare quelle tracce per valutare se possano darci informazioni sulla varietà dei processi manipolativi che le hanno generate. L’intuizione è sensata, e necessaria a orientare le idee sulle possibili differenze nell’uso dell’interfaccia-corpo tra gli uomini moderni e quelli estinti.

E Bruner

Omineide

•gennaio 28, 2015 • 4 commenti

Animals are not clownsL’Istituto Nazionale della Salute statunitense (NIH) ha deciso di girare pagina sul fronte della sperimentazione animale, e di chiudere quasi tutte le linee di ricerca che utilizzano nei laboratori  metodi invasivi e non invasivi sugli scimpanzé. Segue grande dibattito tra sostenitori e detrattori della sperimentazione animale. La questione etica è facile da capire, anche se poi restano sempre i nodi contorti di un antropocentrismo radicato nell’anima. La sperimentazione animale può arrivare a livelli di tortura incompatibili con quel dono empatico che ci rende umani, c’è poco da dire. Ma allo stesso tempo la ragione principale della difesa delle grandi scimmie continua a essere la loro somiglianza con noi stessi, dando per scontato che il rispetto sia dovuto solo a quelli “che sono come te”. Il concetto di rispetto della vita non dovrebbe essere proporzionale al grado di parentela o somiglianza con il giudice. A parte essere moralmente discutibile, è anche un criterio pericoloso, perché questi gradi di somiglianza possono essere soggettivi e suscettibili di repentini cambiamenti. L’attenzione dovuta alla questione etica da sempre però distoglie lo sguardo dai problemi scientifici della sperimentazione animale, che sono senza dubbio più pragmatici, oggettivi, e indiscutibili. In ordine sparso: la numerosità campionaria, l’influenza delle condizioni esterne, la validità del modello biologico. Il problema statistico del campione è realmente curioso. In altri campi dove ci sono limiti in questo senso (per esempio la paleontologia) continuamente si critica e si discredita l’approccio quantitativo in nome di una robustezza statistica insufficiente. Invece nei settori che utilizzano modelli animali (per esempio la neurobiologia) si accettano senza remore studi con pochi individui, a volte due o tre esemplari, a volte solamente uno. A parità di robustezza statistica, due pesi e due misure, evidentemente. Poi c’è la questione dell’ambiente. In neurobiologia spesso quei due esemplari utilizzati nello studio vengono da una vita trascorsa in uno stabulario, isolati da qualsiasi contesto ecologico o sociale. Se davvero l’ambiente ha quell’importanza che sospettiamo nel forgiare mente e cervello, è chiaro che quelle condizioni di laboratorio genereranno risultati da prendere quantomeno con le pinze. Infine la questione del modello. Diamo per scontato che affinità genetica voglia dire corrispondenza biologica, ma ormai da tempo sappiamo che non è così, e certi parallelismi possono essere davvero fuorvianti.

Questi limiti non devono necessariamente portare a un rigetto indiscriminato della sperimentazione animale, ma devono essere opportunamente considerati quando uno valuta il suo costo economico e morale. E ovviamente quando ne interpreta i risultati. Sia come sia, le accademie neuroscientifiche bofonchiano contro la scelta del NIH. Qualcuno sicuramente avrà le sue ragioni scientifiche e morali, ma sono in gioco soldi e carriere, e c’è da pensare che la reazione ostile non sia solo dovuta alla discordanza sul piano culturale. Il tutto mentre lo stesso sistema accademico statunitense continua a presentare stereotipi e riduzionismi nella ricerca che realmente ci saremmo dovuti lasciare dietro nel secolo scorso. Sopratutto a livello evolutivo, le neuroscienze continuano a negare approcci e risultati che non portino il loro marchio di fabbrica. In una recente e titolata revisione su neuroanatomia e evoluzione cerebrale, una di queste revisioni-manifesto del mainstream che sembrano un messaggio alla nazione, l’evidenza paleontologica si spazza via nelle prime righe dell’articolo affermando che i fossili non possono rivelare cambi evoluzionistici dell’organizzazione cerebrale, e sigillando questa condanna citando un articolo del … 1968! Beh, però a questo punto dovendo riconsegnare i resti umani alle popolazioni indigene per farle star buone, e dovendo liberare i prigionieri antropomorfi dai laboratori, credo che non gli farebbe male dare un pó più di credito alle informazioni disponibili sulle specie estinte, aggiornando le loro bibliografie e magari considerando i contributi di altre discipline complementari. L’errore non è pensare che la paleontologia abbia dei limiti, ma credere che le altre scienze non ne abbiano.

E Bruner

Neuroestetica hussariana

•gennaio 21, 2015 • 7 commenti

mh

Di recente, presso la conferenza “Embodiment in evolution and culture” organizzata ad Heidelberg presso il Forum internazionale delle scienze, ho avuto il piacere di incontrare il professor Semir Zeki, ben noto per essere il guru della neuroestetica. Zeki é anche dipinto dai suoi oppositori filosofici come una sorta di oscuro signore del riduzionismo neurale, caratteristica che stride con il suo essere persona eclettica e divertente. L´incontro con Zeki mi ha spinto a porre una riflessione importante: che cosa si intende per riduzionismo neurale in relazione alla disciplina nota come neuroestetica? I lavori di Zeki mirano a definire regioni del cervello umano che, invariabilmente rispetto al background culturale di appartenenza dei soggetti sperimentali, si attivano in risposta all´esperienza della bellezza. Il fatto che esistano risposte fisiologiche universali di questo tipo é appunto un fatto ed in quanto tale dovrebbe essere neutrale rispetto alla spiegazione teorica ad esso associata. Una semplice attivazione neurale non permette di parlare di riduzionismo, poiché la stessa puó tranquillamente essere compatibile con qualunque teoria filosofica del rapporto tra esperienza e cervello. In virtú di ció, non é possibile criticare lavori neurobiologici di questo tipo come riduzionisti. Il riduzionismo appare sulla scena nel momento in cui tale attivazione neurale é considerata sufficiente, piuttosto che meramente necessaria, a spiegare l´esperienza estetica.

Capire il significato di questa espressione tuttavia non é semplice. Nella sua accezione piú estrema, questo argomento implicherebbe che la selezione naturale installi nel cervello umano una categoria “estetica” programmata per rispondere a certi stimoli percettivi nel mondo. Alcuni stimoli visivi sulla retina produrrebbero cosí una attivazione della categoria estetica al livello neurale, producendo l´esperienza fenomenologica che si prova quando si osserva un´opera d´arte. In questo senso dunque, si potrebbe affermare che l´arte umana é determinata dalla e modellata sulla forma dei nostri network neurali. Se cosí fosse (ma mi auguro di sbagliare), alcuni fenomeni associati all´esperienza estetica rimarrebbero inspiegabili. Ad esempio, tutte le opere d´arte dovrebbero generare la stessa esperienza estetica in tutti gli individui, a prescindere dalla provenienza culturale, eliminando cosí ogni aspetto riguardante la soggettivitá. Consideriamo ad esempio l´opera di Michael Hussar raffigurata qui sopra. In una piccola indagine organizzata dal sottoscritto, la maggior parte degli individui intervistati (su un campione di circa dieci soggetti) definisce l´opera “orrenda”, mentre una piccola e significativa parte (incluso il sottoscritto) sostiene che l´opera sia “bellissima”. Ora, posto che in quei soggetti che trovano l´opera hussariana bella si attivino le aree “estetiche” del cervello, cosí come in coloro che guardano le opere di Michelangelo, appare chiaro che non esiste alcun rapporto pre-determinato tra forme/colori, aree neurali ed esperienza estetica. Non esiste dunque la possibilitá di ridurre l´esperienza estetica ad una serie di attivazioni neurali. Tuttavia, resta da spiegare che cosa rimanga invariato quando un individuo trova belle sia le opere di Hussar che quelle di Michelangelo (il che dovrebbe attivare le medesime aree cerebrali). Forse, la chiave per risolvere questo problema é da trovarsi proprio nell´enattivismo. Forse, a rimanere invariata, é l´azione-relazione con cui l´individuo estrae e porta alla coscienza la bellezza in un´opera d´arte. L´invarianza, dunque, risiederebbe nell´azione del soggetto, piuttosto che in una serie di forme e colori selezionati per apparire belli.

D Garofoli